Un milione di fucili

[Racconto di Paola Manoni]

 



Tutto ebbe inizio dal trattato, firmato a Plombières ... se non si contano i decenni preparatori lungo tutto il processo risorgimentale.
La Francia ed il Regno di Sardegna stringevano un'alleanza.
Correva l'anno 1859 ed io, Giuseppe Garibaldi, guardavo con ardore di libertà i preparativi della liberazione del Nord Italia.
Cavour muoveva per l'inevitabile guerra all'Austria.
E la cronaca è nelle pagine di storia.
Di fatto, al marzo 1860, restavano in Italia tre soli Stati: il Regno di Sardegna, lo Stato della Chiesa ed il Regno delle Due Sicilie.
E non aggiungo nulla sui territori ancora orrendamente tenuti sotto il controllo di Francesco Giuseppe ... poiché il Veneto, il Trentino, il Friuli e la zona del mantovano attenderanno ben oltre l'unificazione dei tre stati indipendenti
nella Penisola Italiana...
Al marzo 1860 l'idea era quella di predisporre la capitolazione del regno delle Due Sicilie, al cui governo vi era l'inesperto re Francesco II Borbone...
Da un lato era necessario a Cavour un casus belli ... dall'altro l'unica strada era quella dell'insurrezione popolare.
La Sicilia, autonoma e per lo più mazziniana, sarebbe stata il grimaldello per scardinare la monarchia borbonica.
Giunse a me attraverso Rosolino Pilo la prospettiva di organizzare la rivolta in Sicilia.
Accettai a condizione di preparare una rivoluzione di base popolare ed in nome di Vittorio Emanuele II.
Ero reduce dalle campagne di Lombardia, nelle quali combattei con i Cacciatori delle Alpi.
Questa spedizione dimostrò a me e a Cavour che ero in grado di reclutare tanti volontari sotto la mia guida.
Riuscii ad avere 1162 uomini, pronti a dare la vita per l'ideale di patria.
Nel frattempo, i piemontesi mi accordarono la fiducia per organizzare una rivolta nel cuore del Regno delle Due Sicilie.
Maggio fu un mese a dir poco febbrile.
Il governo sabaudo mi deputava segretamente l'insurrezione siciliana, e mi affidava due vascelli per trasferire i miei uomini in Sicilia.
Così simulammo il furto di due imbarcazioni - invero acquistate (con un giro un po' complesso) per conto del Regno di Sardegna.
Con una lettera datata 5 maggio 1860 scrissi ai direttori dei Vapori Nazionali.

Signori,
Dovendo imprendere un'operazione in favore d'Italiani militanti per la causa patria, e di cui il Governo non può occuparsi, per false diplomatiche considerazioni, ho dovuto impadronirmi di due vapori dell'amministrazione dalle Loro Signorie diretta, e farlo all'insaputa del Governo stesso e di tutti.
Io attuai un atto di violenza, ma comunque vadano le cose, io spero che il mio procedere sarà giustificato dalla causa santa servita e che il Paese intiero vorrà riconoscere, come debito suo da soddisfare, i danni da me recati all'amministrazione.
Quandoché non si verificassero le mie previsioni sull'interessamento della Nazione per indennizzarli, io impegno tutto quanto esiste di danaro e materiale appartenente alla sottoscrizione per il milione di fucili, acciocché con questo si paghi qualunque danno, avaria o perdita alle Loro Signorie cagionata.
Con tutta considerazione,
Giuseppe Garibaldi


 

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Immagine di Giuseppe Garibaldi in mezzo busto (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). L'eroe dei due mondi, avvolto da un mantello violaceo, la barba bionda un cappello del medesimo colore. Ha le mani appoggiate al bastone, in una posa solenne.Particolare delle mani sul bastone.Particolare del volto.
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Quando partimmo dallo scoglio di Quarto, vi era in realtà la vigilanza delle autorità piemontesi che garantirono i rifornimenti ed una partenza tranquilla.
Signori: stava lasciando gli ormeggi la Spedizione dei Mille!!!
Vi domanderete cosa fosse la sottoscrizione per il 'milione di fucili'?
Nel gennaio avevo lanciato una raccolta di denaro per l'acquisto - non simbolico ma concreto - di armi da impiegarsi in imprese per la liberazione dell'Italia.
Ma quanto già comprammo nei primi mesi non raggiunse la Sicilia poiché l'arsenale bellico costituito venne sequestrato dal timoroso governatore Massimo D'Azeglio e chiuso nei depositi milanesi.

I miei uomini eran purtroppo muniti di vecchi fucili e poca polvere da sparo nelle tasche.
Ma non si fermarono nonostante l'inadeguato equipaggiamento.
Vi fu poi il problema delle scialuppe piemontesi che avrebbero dovuto incrociarci per rifornirci di quanto necessario nel trasferimento verso la Sicilia, durante la notte, ma...
Per circostanze strane questo non accadde!
Sicché il 7 maggio decisi di fermarmi a Talamone, in Toscana, per recuperare munizioni, carabine ed alcuni cannoni - ricevuti dalla guarnigione dell'esercito del Regno di Sardegna, allocata in territorio toscano.

Il mare era tranquillo, vento solo variabile e onde poco sopra il mezzo metro. Capitanavo i due bastimenti che navigavano in flottiglia con immenso piacere.
La mia prima patria, il mare.
I miei genitori avrebbero voluto vedermi avvocato oppure medico.
Oppure prendere i voti per la vita monastica.
Fuori da ogni loro aspettativa, ebbero un figlio amante della nautica.
Nel 1821 ero iscritto nel registro dei mozzi di Genova e a sedici anni, nel 1824, ero già imbarcato sulla nave 'Costanza' con cui arrivai ad Odessa e a Taganrog, città natale di Anton Cechov.
Quanti viaggi di mare, quanti ricordi!
Storie di sbarchi, di tempeste, di assalti di pirati.
Una volta, sulla nave 'Cortese' vi fu l'arrembaggio dei corsari turchi che depredarono tutto, anche i vestiti dei marinai.
Fu attraverso il mare feci conoscenza delle idee mazziniane.
In una delle tante rotte verso Taganrog, nel 1833 ebbi modo di conoscere un gruppo di tredici francesi, fedeli alle tesi di Saint-Simon.
Si recavano esuli a Costantinopoli, allora patria di molti profughi politici dell'Europa.
Le idee socialiste dell'intellettuale francese mi parvero illuminanti e in me si legarono indissolubilmente alla filosofia di Giuseppe Mazzini che appresi, per la prima volta e sempre nello stesso viaggio, quando sbarcai a destinazione a Taganrog.
In una locanda ebbi modo d'incontrare Giovanni Battista Cuneo.
Interpretai l'idea dell'Italia unita come soglia di partenza per la redenzione dei popoli oppressi.
Nello stesso anno, ebbi modo d'incontrare Mazzini a Londra, dove viveva il suo esilio.
Qui mi iscrissi alla Giovine Italia e, spinto dall'impegno politico e dall'ideale rivoluzionario misi a servizio della Marina Sabauda le mie competenze marine.
Ero un marinaio piemontese, disposto a fare via mare propaganda rivoluzionaria.
Condurre imbarcazioni e combattere.
Era quanto mi accingevo a fare con i Mille, a partire dalle coste siciliane.
Ma eravamo ancora fermi a Talamone.
Qui presi la decisione sbarcare il patriota Callimaco Zambianchi ed una sessantina di uomini con la missione di invadere i territori Pontifici per la causa italiana.
Così ordinavo l'8 maggio a Callimaco:
1.
Il Comandante Zambianchi invaderà il territorio Pontificio colle forze ai suoi ordini, ostilizzando le truppe straniere mercenarie di quel Governo antinazionale con tutti i mezzi possibili; 2.
Egli susciterà all'insurrezione tutte quelle schiave popolazioni contro l'immorale Governo e procurerà ogni modo per attrarre don lui, tutti i soldati italiani che si trovano al servizio del Papa; 3.
Egli, campione della causa santa italiana, reprimerà qualunque atto di vandalismo col maggior rigore e procurerà di farsi amare dalle popolazioni;

[...]

 

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Immagine di Cavour (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede lo statista in mezzo busto, con una giacca grigia, un'espressione seria dietro un paio di occhiali tondi di piccole dimensioni, il volto incorniciato da una barbetta bionda.Particolare del busto.
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Il Zambianchi fece del suo meglio.
Coinvolse altri duecento uomini e irruppe negli Stati Pontifici.
Ma ebbe la meglio la controparte che col colonnello francese Georges de Pimodan, lo attaccò presso Orvieto ed ebbe la meglio.
Cavour, per timore che i francesi, alleati del Papa, reagissero oltremodo, inviò una nave in Toscana per cercare ed arrestare Callimaco.
Per evitare reazioni politiche, venne detto che l'azione era solo per distrarre l'esercito del Regno delle Due Sicilie poiché il vero piano sarebbe stato l'invasione dell'Abruzzo, attraversando il territorio Pontificio.
In altri termini, si disse che parve necessario spostare l'attenzione militare lontana dalla Sicilia e verso i territori borbonici settentrionali.
Invero nessuno ebbe il sentore del nostro attacco da Sud.
Attraccammo a Marsala facendo una rotta insolita.
Cioè, evitammo il nemico piegando per le isole Egadi, fin quasi sotto le coste della Tunisia.
A dire il vero godevamo anche di una certa protezione inglese: al largo di Marsala stazionavano infatti due navi da guerra britanniche, pronte ad intervenire ...
Correva il dì 11 maggio del glorioso anno 1860.
Appena sbarcammo, tenni ai siciliani accorsi in porto un brevissimo discorso:

Siciliani,
Io vi ho guidato una schiera di prodi, accorsi all'eroico grido della Sicilia, resto delle battaglie Lombarde.
Noi siamo con voi!
E noi non chiediamo altro che la liberazione della nostra terra.
Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve.
All'armi dunque; chi non impugna un'arma è un codardo ed un traditore della patria.
Non vale il pretesto, della mancanza d'armi.
Noi avremo fucili ma per ora un'arma qualunque ci basta; impugnata dalla destra d'un valoroso.
I Municipii provvederanno ai bimbi, alle donne ed ai vecchi derelitti.
All'armi tutti!

 

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Immagine di un monumento equestre (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Il disegno fa riferimento alla statua eretta al Gianicolo (Roma) in memoria di Giuseppe Garibaldi.Particolare del lato anteriore del cavalloParticolare del lato posteriore del cavallo.
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La Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera un paese dagli oppressori, colla potente volontà d'un popolo unito.

La gente, che forza straordinaria!
I volontari accorsero numerosi, comandati dai fratelli Sant'Anna.
Lasciammo Marsala per spingerci all'interno dell'Isola.
Il 14 maggio, a soli tre giorni dallo sbarco, arrivammo a Salemi dove dichiarai il seguente proclama di governo:

Giuseppe Garibaldi comandante in capo l'Armata Nazionale in Sicilia,
inviato dai principali cittadini e sulle deliberazioni dei Comuni dell'Isola,
considerando che in tempo di guerra è necessario che i poteri civili e militari sieno concentrati nelle medesime mani,
Decreta
che prende la dittatura in Sicilia in nome di Vittorio Emanuele re d'Italia.


Passammo di vittoria in vittoria.
La prima significativa, con a fianco 500 picciotti, sul campo di battaglia di Calatafimi, il 15 maggio.
Finché non arrivammo il 27 maggio ad occupare Palermo.
Dopo un duro scontro con l'esercito borbonico entrammo in città, insorta e solidale alla nostra azione.
I borbonici bombardarono pesantemente le nostre posizioni.
Dalle loro navi e sotto il Palazzo dei Normanni.
Ma qualunque loro contrattacco venne arginato con maestria.
Occupammo il porto che divenne un incredibile centro in cui gravitavano i più disparati personaggi.
Dai cronisti inglesi e americani fianco ad Alexandre Dumas, che arrivò con il suo veliero il 30 maggio, portando armi e champagne per festeggiare la vittoria della libertà!
In luglio avevamo praticamente il controllo dell'Isola.
Il 27 entrammo a Messina quando l'esercito nemico si era in parte ritirato.
Noi non attaccammo con le armi avendo stipulato il patto di non arrecare alcun danno alla città e consentendo l'imbarco dei borboni verso Napoli.
Predisponevamo le operazioni militari per il continente, in attesa di attraversare lo Stretto!
Mentre entravamo in Basilicata ... il 2 settembre ... Francesco II scappava da Napoli per riparare nella fortezza di Gaeta e portare l'esercito sulla linea del fiume Volturno.
Il 7 settembre fu un gioco da ragazzi entrare a Napoli.
La popolazione ci attendeva in festa e l'esigua compagine di militi borbonici, ancora presenti, non ebbe le forze di opporre alcuna resistenza.
Il nemico provò a giocare il tutto per tutto nella battaglia del Volturno.
Ci attendevano in cinquantamila soldati bene armati.
Noi eravamo poco più della metà ma bene organizzati e con una motivazione inossidabile.

 

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Immagine di Garibaldi sul campo di battaglia.(Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede il condottiero in figura intera, con la spada sguaniata, vestito con la camicia rossa garibaldina ed un fazzoletto al collo. Sullo sfondo diverse bandiere italiane che sventolano.Particolare del tricolore.Particolare di Garibaldi.
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La battaglia terminò i primi di ottobre e alla fine del mese già si svolgeva il plebiscito per l'annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna.
E mentre noi combattevamo, l'esercito sardo scendeva verso le Marche e l'Umbria vincendo l'esercito papalino nella battaglia di Castelfidardo.
Alla fine di ottobre, precisamente il 26, incontrai il Re.
Il nostro incontro ebbe il rito di un dovere militare.
Nel luogo convenuto scesi da cavallo ed aspettai.
Vittorio Emanuele venne preceduto da un rullo di tamburi e dalla marcia reale.
Si vide dapprima avanzare un nugolo di carabinieri a cavallo.
Poi si avvicinò il re, con il suo cavallo arabo.
Lo seguiva un codazzo di generali con il Ministro della guerra Fanti e il viceré di Napoli Farini.
Mi tolsi il cappello, restando con il fazzoletto che mi proteggeva la testa dall'umidità del mattino.
Il re, salutandomi, mi chiese con semplicità:
"Come va?".
Io gli descrissi la situazione del momento e lui si intrattenne con considerazioni sparse.
Parlò pure del buon tempo e delle strade cattive mentre cercava di domare l'irrequietezza del suo cavallo.
Poi ci muovemmo entrambi, al passo.
L'umiltà della mia camicia rossa accanto alla sfarzo della divisa lucente del re, tutta decorata di cordoni d'oro e d'argento.
Ci stavamo incamminando verso una buona colazione offerta nei pressi di Teano.
La gente, per lo più contadini, accorrevano al nostro passaggio.
Acclamavano i garibaldini e non il re!
Allora io sottolineavo loro:
"Ecco il re, Vittorio Emanuele II!".
Ma loro rispondevano indifferenti:
"Viva GALIBARDO!".
Allora Vittorio Emanuele spinse il suo cavallo al galoppo.
E noi fummo costretti ad andargli parimenti dietro.
Evitava la gente.
Infatti, superati i contadini, si mise nuovamente al passo.
In cuor mio trovai che lo sdegno del re di non esser festeggiato dovesse essere superato da Vittorio Emanuele.
Avrebbe dovuto trovare una dimensione più nobile per unirsi alla gente ed entrare in sintonia con loro.
Senza scappare.
Il re non era evidentemente interessato all'amore del popolo.
Questo che vidi fu presagio di quanto accadde nei giorni successivi.
Avrei sperato che Vittorio Emanuele passasse in rassegna i miei soldati che per mesi si erano battuti in nome della monarchia sabauda!
I primi di novembre era previsto che Vittorio Emanuele si recasse a Napoli.
Io tentai di organizzare un incontro con la mia gente, sulla strada.
Il giorno dello spostamento del re con la sua corte, disposi tutti i miei uomini, fuori dalla Reggia di Caserta.
Vittorio Emanuele avrebbe salutato i Mille, che ora eran ben più numerosi.
Gli uomini che avevano dato tutto per la patria ed in suo nome.
La vita e il sangue.
La mia gente attendeva di acclamare il suo Re e di ricevere un cenno di riconoscimento.
La mia gente attese ore, ore ed ore.
Invano.
Vittorio Emanuele non arrivò.
Il giorno successivo entrò a Napoli e io partii per tornare a casa, a Caprera.
Con l'amarezza di una conclusione mancata.
Vittorio Emanuele II proclamato re d'Italia il 17 marzo 1861.
Tutto era andato secondo i piani di Cavour.
Tutto fuorché le aspettative della gente.
Dei contadini del Meridione e di tutti quei volti affamati e sofferenti che avevo incontrato durante la nostra spedizione.
Io, illuso e loro, con me.
L'unificazione, cosa avrebbe portato?
Non si era che agli inizi e lo strato popolare mancava totalmente nelle intenzioni sabaude.
Del Regno delle Due Sicilie si pensò più che altro in termini di tutela dell'Esercito e dell'Armata di mare.
A costoro fu consentito di mantenere grado ed onori militari se avessero prestato giuramento di fedeltà al re.
Per i reduci rimasti fedeli a Francesco II vi fu invece la deportazione nei campi di prigionia piemontesi, dove si moriva di fame e di malattie.
Vi fu poi una parte di irriducibili che non si piegò al nuovo sovrano e si unì alla resistenza ... a quel movimento noto alla storia come 'brigantaggio'.
E in questi confluì anche una compagine che si sentì abbandonata a se stessa, vedendo che la rivoluzione sociale del Meridione non veniva realizzata.
Il trionfo dei Mille, gli ideali di cui eravamo portavoce circa la concezione sociale dell'unità del paese, non ebbero riscontro nella monarchia italiana.
Il regno d'Italia cercava riconoscimenti all'esterno, dagli altri Stati i quali non tardarono ad accordare il proprio consenso ma, dimenticò di sentire la gente o - quanto meno - iniziò a farlo molto tardi.
Tuttavia l'Italia era fatta e allora ... si dovevan fare gli italiani ... come disse qualcuno!

 

 

 

 

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